Un dato politico spiega molto: quasi tre su quattro dei giovani britannici tra i 18 e i 24 anni hanno votato per rimanere. Mano mano che si va avanti per classi di età il dato si ribalta e chi ha deciso per la Brexit sono dunque i nonni baby boomers, quelli che hanno preso il miglior slot della storia e tutto il meglio delle politiche keynesiane come se non ci fosse un domani e che, ancora una volta, hanno deciso di bombardare il futuro dei loro nipoti. È il ritorno di una spaccatura generazionale che in questo Continente, vecchio più che mai, reazionario, impaurito, xenofobo, ignorante, non si vedeva dal Maggio.
La Gran Bretagna dunque va e il prossimo passo sarà restaurare le misure imperiali in luogo dell’odiato sistema metrico decimale. Buona fortuna. Del resto Londra (chapeau al generale De Gaulle che ne ritardò il più possibile l’ingresso) era sempre rimasta ferma al “I want my money back” di Margaret Thatcher sulla PAC, che rese l’adesione alle strutture comunitarie esclusivamente un fatto di convenienza contabile. È questo il contributo solo tattico e speculativo che Londra ha dato alle Comunità Europee negli ultimi quarant’anni: impedire qualunque progresso politico, qualunque respiro solidale e idea alta di unione, rendere asfittiche le politiche di coesione, averla resa un ginepraio di veti e aver fornito l’impalcatura ideologica neoliberale che oggi domina, trasformando la BCE nel nuovo palazzo d’inverno da espugnare. L’Europa – giova ricordare – non è sempre stata quella che ha massacrato la Grecia, ma è a lungo stata quella che ha permesso per esempio alla Spagna di colmare il divario di quarant’anni di franchismo garantendone una rapida coesione col resto del Continente. “Prendi i soldi e scappa”, potrebbe essere il titolo di coda di 43 anni di Gran Bretagna in Europa.
Loro vanno, ma il nostro spazio, quello nel quale (come ci hanno insegnato milioni di ragazzi britannici messi in minoranza dai loro nonni) qualunque riforma democratica è possibile, incluso ribaltare l’ideologia monetarista che sta distruggendo le nostre vite, è e resta quello europeo. Lo è per il semplice dato che nei vetero-nazionalismi decimononici e nostalgici se non fascistoidi, da Farage a Le Pen, in un mondo complesso, multipolare e che certifica in questo scorcio di XXI secolo il superamento della centralità dell’Occidente se non la marginalità europea, non c’è progresso possibile. Chi da sinistra odia Bruxelles e festeggia la Brexit fiancheggiando Salvini, è affetto dalla stessa miopia del vasto fronte degli interventisti democratici del 1915, che plaudiva alla guerra come lavacro che avrebbe aperto le porte alla Rivoluzione, e si ritrovò spazzato via dal nazionalismo che condusse ai fascismi.
Come nel 1914, anzi più che mai, con la Brexit la nazione vince sulla classe – che oggi è quella dei nipoti – e sottovalutare tale debolezza è il più terribile degli errori. La nazione delle destre dei muri e della demonizzazione dei migranti, dal Brennero all’Ungheria, la nazione dell’illusorietà di un rifugio contro il fiscal compact che al contrario li raggiungerebbe più che mai negli spazi angusti delle vetero-nazioni. In questi anni Londra ha permesso ai piccoli demagoghi dell’ex Europa orientale, dai Kaczy?ski agli Orban, di prosperare ed esigere europe sempre più à la carte. È un principio che va ribaltato perché la Brexit sia un’opportunità per rilanciare il progetto federalista europeo. La nostra nazione europea ce la dovremo fare grosso modo nei dodici meno uno degli anni Ottanta. Gli altri si accoderanno, alle nostre condizioni, prendere o lasciare, strategia non tattica, dove volete che vadano?