Il caso del neofascista Daniele De Santis (foto), che avrebbe aperto il fuoco con una pistola dalla matricola abrasa contro persone che avrebbe odiato “in quanto napoletane”, meriterebbe un dibattito pubblico finora deviato e occultato dai media. Quello registrato nelle ore antecedenti la finale di Coppa Italia a Roma è infatti un salto di qualità nel clima livido e intollerante contro una parte del paese, diffuso da vent’anni da parte della politica e dai media, e che trova nel calcio il suo più laido sfogatoio. Intanto migliaia di persone, come l’ustascia veronese Stefano C. nella foto in basso, si augurano pubblicamente la morte della più grave delle vittime di De Santis.
La tentata strage attribuita a De Santis ha tutte le caratteristiche per comportare le aggravanti previste dalla Legge Mancino per i crimini d’odio. De Santis (secondo le ricostruzioni), e i suoi eventuali complici, hanno pianificato un agguato con tecniche di guerriglia urbana, probabilmente apprese negli stessi circoli dell’estrema destra dai quali è partita l’imboscata. Più volte quegli stessi ambienti hanno colpito e spesso ucciso cittadini Rom, immigrati, omosessuali. Anche sabato hanno agito per odio contro un determinato gruppo sociale, rappresentato non da altri tifosi con i quali regolare i conti secondo un presunto codice d’onore, la cosiddetta “mentalità ultrà”, ma contro persone provenienti dalla città di Napoli, alla quale, come per altre “minoranze”, sono ormai sistematicamente associati disvalori: ignoranza, parassitismo, devianza.
Tutto ciò non è già più, da decenni, “questione meridionale”, che è tutt’altro problema. Siamo di fronte ad un bombardamento politico-mediatico ultra-decennale per indurre a credere che in Italia esista una parte sana e una malata: nord contro sud, partite iva contro pubblico impiego, eccetera. Tali semplificazioni, affatto ingenue e sempre politicamente conservatrici, impartiscono colpe e assoluzioni collettive (“ebrei deicidi”, “italiani brava gente”) e hanno eletto da tempo la capitale del Mezzogiorno a simbolo di tutti i mali del Paese.
La sofferenza e le difficoltà della città di Napoli sono innegabili e proporzionalmente più gravi della crisi che patisce tutto il Paese. La strumentalizzazione per trarre profitto politicamente ed economicamente dai guasti del Sud è evidente, dalle campagne “contro” della Regione Veneto per sottrarre turisti alla Campania alle prese con il problema rifiuti al tentativo di sottrarre quote di mercato all’eccellenza della mozzarella di bufala spacciando il succedaneo di latte padano come più sicuro. Nell’ustascia nella foto, che si augura la morte del “napolecane” Ciro Esposito “per risparmiare la pensione d’invalidità” trovate sintetizzati vent’anni di cultura dell’odio.
Tutto ciò è possibile in un contesto di marcata lumpenizzazione dell’opinione pubblica: con un sistema educativo in caduta libera, pochi laureati e ancor meno lettori, pochi in Italia sono in grado di leggere la tendenziosità dei media ed esercitare un pensiero critico scevro da pregiudizi, stereotipi, manipolazioni. Chi guarda la TV che propone “Genny ‘a carogna” come metastasi, sottacendo il caso “Gastone” De Santis, si fa spingere docilmente dal particolare al generale e da qui all’infezione dell’odio. È la logica disinformativa dell’allarme politicamente funzionale a far passare come parte della dialettica democratica le aberrazioni più disgraziate: i morti nel canale di Sicilia, procurati dall’odio leghista, i pogrom contro i cittadini Rom, le stragi di lavoratori immigrati, l’intollerabilità che Cécile Kyenge potesse essere cittadina italiana e ministra della Repubblica, le leggi discriminatorie contro gli insegnanti meridionali. L’avanguardia armata neofascista di sabato a Roma amplia ancora il campo. È auspicabilmente un episodio isolato, ma il contesto emulativo per nuove esplosioni o per scellerate vendette è presente.
Non prenderei un caffé col signor De Tommaso ma rilevo due cose: se il suo soprannome fosse stato “Mackie Messer” o “Jack the Ripper” avrebbe riscosso meno livori che come “Genny ‘a carogna”. Inoltre, nonostante i capi ultrà siano così a qualunque latitudine, è identificato dai media come simbolo della napoletanità, come fosse Totò o Roberto Murolo. A nessuno viene in mente, e meno male, definire “Gastone” come simbolo della romanità.
Per la cultura d’odio dominante De Tommaso è perfetto nel fornire ai media ago e filo per ricucire i cocci dello stereotipo andato in pezzi con le pallottole di De Santis e riorientare dall’inconsueta immagine del napoletano vittima a quella più rassicurante del napoletano carogna. Per arrivarvi i giornali si sono riempiti di ricostruzioni fantasiose nelle quali pistole con matricola abrasa appaiono magicamente sulla scena e gli aggrediti diventano aggressori. “La Stampa” di Torino ha addirittura incolpato della sparatoria un inesistente immigrato rumeno: un modo per rappresentare sia carnefice che vittima come corpi estranei devianti.
In tutto questo cosa c’entra il calcio? C’entra per due motivi. Il primo è perché resta una delle industrie più importanti del Paese e risponde a una storia popolare nella quale sono da sempre rappresentati anche i peggiori umori. Il secondo è che la squadra del Napoli, dopo un ventennio oscuro, va sempre meglio, forte di un management con una visione globale, fa quadrare i conti e rappresenta una realtà imprenditoriale di successo. È un Sud che funziona e che non va col cappello in mano. Se la lettura dell’opinione pubblica fosse appena più raffinata, il Napoli dovrebbe essere applaudito in ogni stadio. Al contrario, mettendo in discussione gerarchie considerate immutabili, dove il Nord sta sempre sopra e il Sud sotto, come i bianchi sopra i neri e gli uomini sulle donne, il Napoli destabilizza e genera rancore. La tradizione del disprezzo anti-partenopeo è lunga; negli anni ’80 gli azzurri erano accolti sui campi al grido di “terremotati”. Nel calcio di oggi (ma il discorso andrebbe allargato alla società tutta) la forma più visibile di tale livore, prima delle pallottole, è stata nei cori che si augurano la distruzione dell’intera città e una morte orrenda per milioni di persone, in qualche caso evocando addirittura la Shoah, accomunando la lava del Vesuvio ai forni crematori.
Quando le istituzioni hanno individuato in quei cori e in quegli striscioni una forma tipicamente italiana di razzismo da combattere, il razzismo territoriale, da parte del mondo del calcio e del complesso mediatico-industriale vi è stata la difesa corporativa dello statu quo. Complice degli ultras, una potentissima macchina mediatica, Sky, RaiSport, Mediaset, i quotidiani sportivi e non, si è incaricata di convincere l’opinione pubblica che la punizione delle espressioni d’odio mettesse a rischio lo spettacolo calcistico. Non era l’odio a rappresentare un pericolo per il calcio, ma la sanzione di questo. Invece di individuare e punire i colpevoli, il calcio ha fatto macchina indietro isolando le vittime, milioni di persone nate nella città di Napoli, macchiandosi di un riduzionismo criminogeno. Se le vittime si sentono offese da quell’odio ostentato e generalizzato, è perché non hanno senso dell’umorismo.
Forse la macchina mediatica non ha armato la mano di De Santis, ma, favorendo l’impunità del razzismo territoriale, ne ha legittimato l’azione: se in centinaia di migliaia sono liberi di auspicare la morte di milioni di napoletani, possiamo sorprenderci se qualcuno si armi per esaudire questo desiderio? Adesso che il livello dello scontro s’è alzato, chiarificando i termini e proponendo maggiori problemi di ordine pubblico, ci vorrebbe un colpo d’ali. E invece no, il trucido “Genny ‘a carogna” è un paravento perfetto: non siamo noi che siamo razzisti, sono loro che sono napoletani.