PARIGI – Cosa hanno a che vedere le elezioni in Venezuela con le primarie del centrosinistra italiano? Molto, a mio modo di vedere. Riflettiamo per un attimo sul paradosso europeo prima di addentrarci nel contesto venezuelano. La Troika BCE, FMI, UE preferisce mettere la Grecia nelle mani dei neo-nazisti di Alba Dorata pur d’impedire ad Atene di allentare il cappio che strangola mezzo paese e lasciarlo respirare. In Spagna i catalani preferiscono ciarlare d’indipendenza da Madrid pur di non confrontarsi con l’evidenza dell’insostenibilità anche del modello catalano di sviluppo. In Italia le elezioni 2013 saranno un confronto tra presunti “responsabili”, quelli disposti a immolarci in nome dell’ortodossia monetarista dell’agenda Monti, e i demagoghi, da Berlusconi a Grillo, che spacceranno l’uscita dall’Euro come una soluzione. Qualunque altra voce sarà fatta passare sotto silenzio, in pace e in democrazia, come in pace e in democrazia sono stati ignorati i referendum sull’acqua pubblica.
Esemplificativo è il fatto che ben prima delle politiche ci saranno le nostre primarie: uno specchio rovesciato del voto venezuelano di domenica. Alcuni tra i responsabili di cui sopra, da Casini a Montezemolo, da Enrico Letta allo stesso primo ministro Mario Monti, sono terrorizzati dal fatto che nel centrosinistra si possa parlare di politica. Pretendono un impegno formale, una firma magari sulla scrivania di Bruno Vespa all’unico candidato, Nichi Vendola, che, pallidamente, qualche aggiustamento rispetto all’agenda Monti dice di voler fare. Vogliono in pratica che Vendola firmi per sancire che nelle primarie non si discuta di programmi (stabiliti a monte e altrove) e si competa, come in un talent show o in un reality, solo per far vincere chi vende meglio lo stesso prodotto fasullo. Ammesso e non concesso che Vendola si discosti così tanto da Bersani o da Renzi, questo minuto slittamento (il 3-4% di PIL dai più avvantaggiati ai meno?) non è parte delle libertà democratiche accettabili in Europa nel XXI secolo. Il modello economico, venduto attraverso parole d’ordine quali “rigore” e “merito”, è intoccabile, al di sopra del bene e del male, ed è la vera costituzione materiale del nostro tempo. C’è un solo politico di un qualche rilievo in Europa che ha saputo leggere tale bluff, ed è il francese Jean-Luc Mélenchon, che difatti ha visto schierarsi un cordone sanitario contro in occasione delle presidenziali del suo paese. Tutti gli altri balbettano o si schierano con il pensiero unico per paura di essere marginalizzati da una dittatura mediatica che getta ora in pasto la casta, la corruzione, il rinnovamento generazionale, pur che non si parli di politica.
Nelle elezioni venezuelane si confrontano un esponente della destra, Enrique Capriles Radonski, e il presidente in carica ormai da 13 anni, Hugo Chávez, provato da un brutto tumore dal quale molti temono non sia fuori. Anche se si tratta di un sistema presidenziale, che di per sé concentra sulle persone la scelta, ed anche se la personalità di Chávez è oggettivamente dominante, non si tratta di una sfida personale, nella quale i due candidati si differenziano per dettagli. Si tratta invece della scelta tra due programmi diversi e due modi quasi antitetici di vedere la società.
Almeno una parte della destra venezuelana ha compiuto enormi sforzi per uscire dal contesto esclusivamente eversivo con il quale quella parte politica ha vissuto i primi 7-8 anni dall’avvento della V Repubblica. Capriles, in gioventù estremista e golpista, sapeva, ed è un grande successo del chavismo di questi anni, che in Venezuela oggi è solo riconoscendo una nuova egemonia culturale di centrosinistra critica del modello neoliberale che si può provare a fare breccia nell’opinione pubblica. Questa, per merito del presunto regime illiberale chavista, nell’ultimo decennio ha respirato, ha parlato di politica, ha discusso di temi ormai tabù per le opinioni pubbliche europee, riassunti nell’alternativa sistemica che a queste latitudini chiamano socialismo come evoluzione del concetto di democrazia partecipativa sul quale fu scritta la Costituzione della V Repubblica.
Com’è già successo nelle ultime elezioni brasiliane, anche Capriles si è sforzato di avere un discorso simil-progressista cercando di accostarsi al brasiliano Lula, del quale la nostra stampa si è affrettata a definirlo delfino. Questa è stata prontamente smentita: Lula ha disdegnato l’abbraccio di Capriles e ha appoggiato con convinzione, spendendo tutto il suo prestigio mondiale, l’amico Hugo Chávez. Lo stesso ha fatto Dilma Rousseff. Tutti i governi integrazionisti latinoamericani hanno riconosciuto a Chávez il ruolo di padre nobile dei grandi cambiamenti positivi che, nell’ultimo decennio, hanno allontanato il continente dal fallimento totale delle politiche neoliberali, hanno ridotto la povertà, aumentato la spesa sociale, superato o iniziato a superare alcune storiche questioni correlate alla dipendenza post-coloniale e imposto l’America latina come un’entità autonoma di un mondo multipolare.
L’opinione pubblica italiana ed europea ha avuto ben poche possibilità di essere messa in condizione di soppesare tali scelte. Il monoscopio informativo ha preferito demonizzare o ridicolizzare l’esperienza venezuelana usando diffusamente termini senza senso come “dittatura”, che mal si sposano con processi elettorali riconosciuti come i più trasparenti al mondo. Usano il termine “dittatura” come contrario del monopolio dell’ortodossia monetarista sulla nostra vita. Usano il termine “dittatura” per frustrazione, perché non possono ammettere che nel XXI secolo esista un discorso e una prassi politica contro-egemonica. Usano il termine “dittatura” come George Bush usava il termine “terroristi” per i movimenti indigeni e contadini. Come scrive Ignacio Ramonet, Hugo Chávez è senza alcun dubbio il capo di stato più diffamato al mondo. Il campo mediatico serve ancora da cartina tornasole di tale contesto disinformativo. Chi non ha sentito parlare del Venezuela chavista come di un posto dove sarebbe negata la libertà d’espressione? È vero che Chávez ha smantellato il monopolio mediatico privato (come si dovrebbe fare anche in Italia) ma è anche vero che, ancora nel 2012, su 111 canali televisivi esistenti nel paese, 61 sono privati e 37 comunitari. I 13 pubblici superano a stento il 5% di audience. Nella stampa scritta l’80% delle copie vendute tuttora corrisponde a giornali fieramente oppositori del governo, a partite da El Universal e El Nacional. Chi mente? Chi disinforma? Chi diffama?
Tutto lascia prevedere che un eventuale governo Capriles avrebbe il marcato colore della restaurazione neoliberale e del revanscismo anti-chavista. Ed è questa la grande differenza tra le primarie di Roma e le presidenziali di Caracas. Capriles tergiversa rispetto ai bagni di folla di un paese polarizzato, ma ha un programma antitetico a quello di Chávez: riprivatizzerebbe tutto o quasi quello che i governi bolivariani hanno riportato nella sfera pubblica e, nonostante le promesse (anche queste segno dei tempi), ridurrebbe tutti i programmi di welfare, il sistema sanitario pubblico, il sistema educativo e ripristinerebbe l’imperio del grande capitale nazionale e internazionale sul paese. A chi scrive sembra del tutto legittimo tale programma com’è legittimo ricordare, ma non se ne trova traccia nei media che spesso puntano sul giovanilismo come se Capriles fosse un epigono di Renzi, che il programma del candidato delle destre venezuelane è lo stesso che infiniti lutti e ingiustizie ha causato all’America latina nell’ultimo mezzo secolo.
L’altra opzione è quella che Hugo Chávez chiama socialismo e che è appena tradizionale riformismo: spesa pubblica con partecipazione sociale nelle decisioni utilizzando (e glielo rinfacciano!) le enormi risorse del petrolio che prima finivano in tangenti e in enormi fortune private. Tassazione progressiva (orrore!), difesa e rafforzamento dei programmi di salute e istruzione e di tutto ciò che ha ridato fiato e una vita un po’ più degna a quella massa di esclusi della “democratica” IV repubblica. Certo dopo 13 anni, e chi scrive non lo ha mai negato, la caoticità del processo, l’obbligatorietà di schierarsi in un contesto polarizzato (ma dove vivaddio si parla di politica!), l’incapacità di arginare una violenza endemica (ma non paragonabile a quella dell’imperio del Narco del nord del Messico, della Colombia, del Salvador o del Guatemala), spezzoni di nuova classe dirigente che non sembra migliore di quella uscente (che comunque continua a prosperare), sono pesi importanti che il governo carica. Ma il chavismo è, in essenza, nei numeri che la presunta sinistra liberal non vuol vedere: il tasso di mortalità infantile dimezzato, l’indice Gini di disuguaglianza diminuito di un terzo, il numero d’insegnanti pubblici moltiplicato per cinque. Hugo Chávez desta tanto odio, tanto rancore perché ha avuto il merito di ricordare che un altro mondo è possibile ed è necessario e si è messo in cammino per realizzarlo nonostante le immense difficoltà che ciò comporta e mettendosi pregiudizialmente contro tutto il mondo che conta, l’economia, la politica, i media. È un peccato mortale nel nostro tempo e alle nostre latitudini. Le enormi masse popolari venezuelane, che in questi anni hanno visto concretamente migliorare le loro condizioni e le loro speranze, sanno da che parte stare.