A 39 anni di distanza dall’11 settembre 1973 e 11 da quello del 2011 è oramai consolidato un dannoso antagonismo tra le due ricorrenze. Il ricordo dell’11 settembre 1973, l’abominio di un colpo di stato contro il governo democratico cileno presieduto da Salvador Allende, eterodiretto dagli Stati Uniti (nella foto il sicario Pinochet stringe la mano al mandante Kissinger), è osteggiato dal complesso mediatico-industriale fino a rappresentarne la volontà di commemorarlo come una provocazione, un’offesa alle vittime dell’11 settembre ‘ufficiale’.
Il ricordo del più grande singolo atto terroristico della Storia, quello di New York, continua intanto a essere rappresentato come il più straordinario esempio di “uso pubblico della Storia”. Appare sempre più chiaro che invece i due eventi sono intimamente legati e fondativi della nostra contemporaneità.
Un’ideologia iniqua, razzista e criminale, il neoconservatorismo, fu infatti capace di usare gli atti terroristici dell’11 come il nascente Terzo Reich fece con l’incendio del Reichstag nel 1933. Il terrorismo, come spesso accade, fu stabilizzante. Furono demonizzate, col pretesto di questo (Genova ne fu illuminante antefatto), le ragioni dei critici di un modello economico e sociale i guasti del quale erano già sotto gli occhi di tutti. Il delirio millenarista dei neoconservatori ebbe il pretesto per mettere a ferro e fuoco mezzo mondo. Ben peggio avrebbe fatto, basta ricordare l’allucinante “Asse del male latinoamericano da colpire” o i 40-50 paesi da attaccare millantati da Donald Rumsfeld, se ne avesse avuto il tempo.
Nel giro di pochi anni non un solo leader di quella stagione politica (Bush, Rumsfeld, Tony Blair, José María Aznar, Silvio Berlusconi), a dimostrare in che mani fossimo, mantiene un minimo di credibilità e onorabilità. Riuscirono solo, a prezzo d’inenarrabili tragedie, a dare ancora un po’ di benefit ai loro grandi elettori, stringendoci a coorte nella solidarietà a quel modello che ergevano a simbolo stesso di un Occidente sotto attacco, e che in quella identificazione veniva umiliato. Era così forte, stridente, volgare, la correlazione tra quegli attentati e l’uso pubblico di questi da essere per molti sospetta. Un decennio dopo, i fondamentalismi contrapposti, quello islamico e quello protestante, entrambi oscurantisti e suprematisti, sono impantanati. L’esportazione della Jihad attraverso le bombe non ha prosperato come non ha prosperato la pretesa di usare la supremazia militare per imporre il predominio degli Stati Uniti e dei satelliti di questo sul mondo.
In particolare per il fondamentalismo protestante la nemesi fu feroce. Pretendevano di usare l’11 settembre addirittura per far finire la Storia e imporre a tutto il pianeta il loro modello sociale ed economico e disporre, attraverso l’imposizione con la forza di governi servili (come col fallito golpe in Venezuela dell’11 aprile 2002), di risorse per un altro giro di giostra. Ancora questa settimana un povero cristo è morto a Guantanamo, la base militare statunitense in territorio cubano occupato illegalmente da più di mezzo secolo. Stava lì da oltre dieci anni e non era mai stato incriminato di alcunché, a dimostrazione che al neoconservatorismo di esportare democrazia e stato di diritto non importasse affatto.
La realtà li ha smentiti nelle loro frenesie da dottor Stranamore. Intere regioni del pianeta non rispondono più e quelle che rispondono, come l’Europa, sono in affanno. Neanche i talebani afghani sono stati sconfitti con le armi. I regimi rovesciati, dall’Iraq alla Libia, hanno lasciato spazio a simulacri di democrazia. L’Occidente, nel breve volgere di un decennio, non è più il centro del mondo ma un frammento del mondo multipolare. La Cina, l’India, interi continenti come l’America latina, concertano cammini autonomi senza riconoscere primogeniture. Di “nuovo secolo americano” non parla più nessuno. L’FMI, lungi dall’aver smesso di fare disastri, non è più egemone. Perfino il G8, che ancora a Genova si atteggiava a governo del mondo, è stato di fatto sostituito dal G20, istanza imperfetta ma più rappresentativa, in attesa che le Nazioni Unite cambino o periscano. Soprattutto, la crisi strutturale del modello neoliberale morde lo stesso Occidente. I tecnocrati chiamati al governo applicano le stesse ricette che hanno portato al disastro. Nelle periferie di questo, dal Messico alla Grecia, si palesa come incubo la fine del lavoro evocata da Jeremy Rifkin come sogno meno di vent’anni fa.
Lo spettro della fine del lavoro, che vuol dire fine dell’aspettativa di vita degna per moltitudini di persone, ci riporta al punto di partenza. Fu per risolvere armi alla mano il conflitto tra capitale e lavoro che fu bombardato il palazzo della Moneda a Santiago del Cile quell’11 settembre di 39 anni fa. Arrivarono i Chicago Boys, gli economisti neoliberali venuti dal Nord, che poterono sperimentare sulla carne viva dei lavoratori cileni torturati le loro teorie. Non risolsero ma pretesero di cancellare tale conflitto, incarnato dalla figura alta di Salvador Allende, come cancellarono le libertà sindacali e i diritti umani. Fu con le bombe alla Moneda che si aprì la stagione che portò al delirio d’onnipotenza neoconservatore, attraverso il reaganismo, il thatcherismo, il neoliberismo reale. Proprio in America latina arrivò a indurre carestie in paesi ricchissimi come l’Argentina. Infine, attraverso l’uso strumentale dell’11 settembre 2001, vollero le “guerre infinite” e seminarono la gramigna del nostro presente di declino.
Oggi, nonostante la figura di Allende si stagli ancora per etica, statura politica, visione della complessità, è lontano il Cile dell’Unidad Popular, il Cile dei sindacati e delle organizzazioni di classe, il Cile dell’universalità dei diritti al quale davamo il nome di Socialismo. È lontano ma è allo stesso tempo vicino, come testimoniano i governi integrazionisti latinoamericani e nello stesso Cile gli enormi movimenti studenteschi. È vicino perché, con quel golpe ignominioso, non fu messa fine a un’esperienza di governo in un paese periferico, ma si cancellò una possibilità concreta di progresso per sperimentare e imporre il modello che portò a infinite ingiustizie. È lontano l’11 settembre 1973, ma il Cile popolare ha ancora molto da insegnare. Al contrario il modello dell’11 settembre è davvero al capolinea.