Candidano il moderato Mitt Romney, ma il cuore del partito repubblicano statunitense batte per l’estremista Paul Ryan, candidato alla vicepresidenza e unico in grado di scaldare i cuori in uno dei partiti conservatori più di destra al mondo. Romney ha un programma reaganiano classico, che in sé basterebbe a caratterizzarlo come tecnocrate che vuole applicare le stesse ricette che hanno avvitato l’Occidente nella crisi generata negli ultimi trent’anni dalla straordinaria avidità delle proprie classe dirigenti. Per il continuo slittamento a destra di queste Romney è però appena un uomo dello schermo. Serve per provare a vincere le elezioni ma quel tocco di odio sociale, capace di emozionare i militanti, lo mette il suo vice che incarna la vera anima del partito e compie un passo avanti nel rompere due secoli di costruzione di una società di massa che chiamiamo democrazia.
Compito dello Stato per il ryanismo non è perequare le differenze; sarebbe il socialismo, del quale accusano Barack Obama per la sua riforma sanitaria. Compito dello Stato non è neanche più ritirarsi e limitarsi a vigilare sul libero dispiegarsi degli spiriti animali del capitalismo, che sarebbero i soli a permettere la creazione della ricchezza. Tale impostazione è troppo progressista per i Paul Ryan, un Sarah Palin con cervello e pertanto più pericoloso. Compito dello Stato per la destra repubblicana al tempo dei tea party, che si spinge oltre e più a destra del bushismo e del neoconservatorismo, è garantire e ricompensare i cittadini migliori (ovvero quelli più ricchi), nei quali si ripone l’essenza stessa di una nazione di ottimati.
Gli altri, le altre classi sociali, le minoranze etniche sempre meno minoranze, gli immigrati che mandano avanti il paese, gli anziani senza protezione, i malati e gli svantaggiati di qualunque risma sono tali per un disegno divino che guarda caso mette questi ultimi al margine e i ricchi alla destra del padre. Nel momento nel quale gli altri si pongono come soggetti politici e portatori di diritti sono solo sanguisughe non in grado di badare a se stessi. Come tali devono perire in una sorta di eugenetica sociale perché ogni redistribuzione è moralmente sbagliata prima che tecnocraticamente non conveniente.
Siamo oltre il fondamentalismo protestante che nel decennio scorso infiniti lutti addusse agli Stati Uniti e al resto del mondo delirando su una millenarista concezione del mondo che vedeva le classi dirigenti degli Stati Uniti al di sopra di tutto. Siamo alla codificazione dell’egoismo sociale come nuove tavole della legge a fondamento di una società che, anche se incapace di ribellarsi davvero, fa paura nella sua diversità a quelle classi dirigenti che pensano di aver il diritto divino di governare il mondo in una sorta di nuovo Ancien Régime.
Non si parla di politica estera a Tampa. Troppo poco c’è da rivendicare dei disastri di George Bush che Barack Obama ha potuto appena rettificare. Non puntano, almeno apparentemente, al diritto a dominare il mondo rivendicato dai Donald Rumsfeld e dagli ideologi neoconservatori ancora fino a un lustro fa. Preferiscono parlare di loro stessi, del loro essere ben nati e del loro presunto diritto a non spartire la roba che il loro dio egoista ha deciso di assegnargli per l’eternità. Per i prossimi due mesi sarà costantemente proposto un doppio discorso, radicale per i militanti, moderato/tecnocratico per le tivù e per l’occhio del mondo. Ma pochi possono ingannarsi su cosa davvero sognano i repubblicani statunitensi.