Finalmente il Partito democratico fa la voce grossa sulla manovra economica. E’ soprattutto preoccupato da una cosa (nefasta) che ancora non esiste, il condono sugli abusi edilizi, ma non spende una parola sul taglio, già nero su bianco, degli stipendi degli statali.
Si sa che un bidello a 1.000 Euro al mese o un impiegato postale a 1.200 Euro al mese guadagnano troppo, rendono poco e il PD considera impopolare dire che Tremonti fa male a tagliar loro lo stipendio. Se poi venissero introdotte anche delle pene corporali pure queste sarebbero buone e giuste ed Enrico Letta e compagni le voterebbero scodinzolando.
Fatto sta che tre milioni di persone, che per il 90% guadagnano meno di 2.000 Euro al mese, subiranno nei prossimi tre anni decurtazioni reali del loro stipendio tra i 100 e i 400 Euro al mese senza che il principale partito di centro sinistra muova un dito. Poi non lamentatevi se questi milioni di consumatori non cambieranno il frigo o la macchina o non staranno in vacanza tre mesi nonostante Mary Star Gelmini voglia allungare le ferie (si sa che la scuola è inutile).
Se è noto che nel pubblico impiego solo una minoranza vota PdL evidentemente il PD con questo silenzio ha deciso di rompere una volta di più i ponti con i tre milioni di dipendenti pubblici. Forse preferisce rappresentare i cinque milioni di partite IVA, sulla tendenza all’elusione e all’evasione fiscale dei quali è conveniente passar sopra. Loro sì, quelli del PD, che sanno fare bene i conti. Con questo giro di banderuola alle prossime elezioni guadagneranno almeno un paio di milioni di voti.
Per i tagli alle fondazioni culturali volute dai demagoghi della Lega Nord, e per le quali James Bondi si diceva esautorato, il governo ha fatto (per metà) macchina indietro. Angiolino Alfano ha addirittura offerto il petto alle baionette del nemico Tremonti: “Mi batterò per i giovani magistrati perché credo che a loro sia stato chiesto un sacrificio di gran lunga più elevato rispetto ai colleghi anziani”. I magistrati, giovani e anziani, facendo la voce grossa, si salveranno. Raffaele Bonanni, l’unico obbiettivo del quale è polemizzare con la CGIL con il surreale argomento che far sciopero per difendere i salari sarebbe “politico” (e allora?), almeno spende una parola per maestre e insegnanti di scuola. Qualcosa in meno perderanno. La veterocomunista CGIL, con la quale il PD non prenderebbe più nemmeno un caffè, e che si ritrova al fianco i neotrinariciuti dell’IDV di Antonio di Pietro, sciopererà da sola con il pubblico impiego. Meglio di niente.
Intanto nessuna delle proposte ragionevoli per ridurre il debito pubblico arrivate in questi giorni (dal rinunciare ad un paio di aerei da guerra a far pagare un altro 5% ai beneficiari del condono tombale di pochi mesi orsono) saranno accolte: estremiste. Meglio, molto meglio punire gli statali, a cominciare dall’Università.
Questa è un comparto considerato strategico in qualunque paese civile ma in Italia continua ad essere descritto come abitato solo da nullafacenti, raccomandati, baroni e baronetti. Questi ultimi, i ricercatori, sono in genere ultraquarantenni pagati tra i 1.200 e i 2000 Euro al mese e con ben pochi contributi pensionistici alle spalle. Tra manovra, che li penalizza economicamente e DDL 1905, che li marginalizza professionalmente, questi perdono una bella fetta di futuro. La “soluzione finale”, la controriforma firmata da Mariastella Gelmini e magnificata da alcuni docenti universitari, editorialisti di grandi giornali come il Corriere della Sera e il Sole 24 Ore, tra i quali Francesco Giavazzi ed Ernesto Galli della Loggia, sarà accentrare tutto il potere nelle mani dei professori ordinari, che a rigor di logica sarebbero i responsabili di molti guasti del sistema, e scaricare tanto i giovani precari, per i quali non c’è posto per almeno un altro lustro, come i ricercatori di ruolo, messi nella tonnara di un ruolo ad esaurimento. Sono le ultime ruote del carro, ed hanno limitate o nulle responsabilità nelle sclerosi del sistema ma i media si esercitano a calunniare anche loro. Sono “baronetti” per “La Stampa” e titolari di stipendi da 10.000 Euro al mese (sic) per lavorare un’ora a settimana (doppio sic) secondo “Il Giornale”.
Non solo ben pochi spendono una parola per i tagli alla ricerca, che obbligheranno l’Italia a pagare mille (impalpabili?) prezzi in innovazione e cultura, ma ricercatori e professori universitari, circa 60.000, tendono a forme di autoflagellazione collettiva incolpandosi perfino dei morti di Bhopal e Portella della Ginestra. Oltre ai Giavazzi o i Perotti, che diffamano un’intera categoria trasformando le responsabilità personali in colpe collettive, nei timidi documentini che circolano in questi giorni c’è sempre un preambolo che invita a non considerare come corporativa qualunque possibile richiesta: la gente non capirebbe.
In UNILEX, una delle principali mailing list sulla politica universitaria, un anziano professore si è detto entusiasta dei tagli degli stipendi ai giovani ricercatori: prendete perfino l’ascensore, ben vi sta. Solo in tre o quattro gli hanno dato del matto. Peccato che lui, che guadagna presumibilmente almeno il triplo di un giovane, non pagherà alcun prezzo per gli ascensori (meccanici e non) che ha preso nella sua carriera. Da quando è stato reso noto il testo della manovra economica, da Trieste a Messina, da Bari a Padova arrivano rumori su richieste di pensionamenti in massa. Chi ha la fortuna di poter beneficiare di una vecchia pensione retributiva fugge dalla nave che affonda e lascia i colleghi più giovani nelle peste. Alcune stime parlano perfino di 6.000 persone, il 10% di tutti i docenti universitari. Lo Stato non guadagna nulla dai pensionamenti, le pensioni saranno pagate dall’INPS invece che dal MIUR, ma il blocco del turn-over impedirà ai giovani di entrare o progredire.
Sciopereranno i magistrati, la scuola, gli iscritti alla CGIL e Tremonti qualcosa abbonerà ad ognuna di queste categorie. Solo i ricercatori fanno sentire una flebile voce ma l’Università è oramai un saccone da boxe che incassa qualunque colpo senza reagire. E’ incapace di saldarsi con gli studenti o spiegare a questi ultimi perché mobilitarsi. E’ incapace di prendere atto che ricercatori e professori non vivono su una torre eburnea ma stanno sulla stessa barca con i precari e il personale tecnico amministrativo che pagano prezzi altrettanto pesanti. L’Università accetterà la “soluzione finale” con dignità piccolo borghese: mai parlare di soldi, noi lavoriamo per amore alla cultura.